Riserva Sant’Agostino presenta il progetto Gli occhi del mare inaugurando l’apertura al pubblico in occasione della 1^ edizione domenica 15 settembre dalle ore 12,00 con un open-day sulla sua prima mostra, Rari Nantes opera site-specificdi Paolo William Tamburella a cura di Mirta d’Argenzio
La Riserva Sant’Agostino a Montalto di Castro è lieta di presentare il suo nuovo e inedito progetto artistico Gli occhi del mare che, con il patrocinio del Comune di Montalto di Castro e dell’Italian Blue Route, inaugurerà la prima edizione con un open-day domenica 15 Settembre 2024 dalle ore 12,00 alle 20,00, con la mostra Rari Nantes, opera site specific di Paolo William Tamburella, a cura della storica dell’arte Mirta d’Argenzio.
L’intervento, pensato e voluto dalla giovane coppia di eredi Giacinto Guglielmi e Clemantina Calleri della Riserva Sant’Agostino, azienda agricola della famiglia dei marchesi Guglielmi, con duecento anni di storia alle spalle, vocata alla protezione della biodiversità e alla salvaguardia delle colture tradizionali presenti in loco, è stato concepito con l’intenzione di creare un dialogo con il territorio locale in cui il mare è il tema protagonista assoluto. Con questo primo evento, la tenuta aprirà per la prima volta il suo antico borgo al pubblico per condividere il patrimonio naturalistico-culturale del luogo e comunicare l’arte attraverso il paesaggio ancora intatto della bassa maremma insieme alle simbologie legate alla natura ibrida del territorio, tra campagna e mare. Mare associato, in questo caso, a quei Rari Nantes ossia a quei “rari nuotatori nel vasto gorgo”, dal celebre emistichio dell’Eneide riferito ai naufraghi di una delle navi di Enea distrutte da Giunone che è appunto il titolo di Tamburella della prima mostra ospitata. Mare come inevitabile fulcro, vera ricchezza, orizzonte e linea di confine di un paesaggio rurale perfettamente preservato e di rara bellezza. Sul mare si incontrano le vicende di individui in cerca di sé, sospesi sul bordo dell’oceano, col destino segnato da quei viaggi tra alte onde e profonde acque. E sul mare si affaccia anche l’antico borgo di Sant’Agostino, dove tante storie confluiscono da centinaia di anni. Usando il mare come metafora esistenziale, l’artista crea immagini universali che raccontano storie di vite salvate. “L’intervento di Paolo W. Tamburella, la cui ricerca propone una trasmigrata fiducia nel potere trasformativo dell’immaginazione e un interesse quasi magico nei confronti del quadro votivo marinaro tradizionale – da cui egli trae spunto per elaborare l’iconografia di questo lavoro specifico -parte da qui. L’artista riporta così la nostra attenzione verso una tradizione plurisecolare del Mediterraneo sin dal 1600, presente nei vari santuari dedicati ai doni votivi per grazia ricevuta, usanza antichissima, che risale al mondo pagano e che esprime molteplici valenze. L’opera ci appare come una sorta di incantato site-specific che dialoga con lo spazio e con il territorio circostante e, al tempo stesso, comunica con quell’immensità di suggestioni e luccichii lontani riportando in primo piano il tema del mare, le sue poesie, leggende e grazie ricevute”, spiega la storica d’arte Mirta d’Argenzio. Rari Nantes è un monito alla memoria di tutti. Nasce da una suggestione che l’artista ha ricevuto e colto passeggiando per le Calle di Venezia, dove il suo sguardo è stato catturato dagli ex-voto dei marinai, esposti in numerosi luoghi di culto. Prende origine da lì la sua ispirazione e l’esigenza di restituirne una versione contemporanea, dilatata, visionaria e fantastica. Le immagini miracolose plurisecolari, che storicamente legano la gente di mare a coloro che li attendono sulla terra ferma, hanno assunto un valore poetico e di celebrazione in memoria e in onore di quel ringraziamento primordiale che viene espresso dal sopravvissuto. Disegnata con mano leggera e creata ad hoc per gli spazi in disuso del borgo Sant’Agostino affacciati sul mare, Rari Nantes spunta così come un’improvvisa apparizione, un invito alla contemplazione di un paesaggio straordinario che si apre al cospetto del visitatore, offrendo uno scenario reale e al contempo fiabesco in cui, attraverso l’opera site-specific di Tamburella, è possibile entrare in dialogo tra armonie panoramiche e artistiche, creando un micro-universo di sensi in cui gli occhi del mare sono sia quelli di chi lo attraversa che quelli di chi lo osserva da lontano in tutto il suo mistero. Gli occhi del mare è un progetto artistico al suo esordio, un’esortazione rivolta alla capacità di volgere lo sguardo oltre, sul senso profondo e poetico delle cose per vedere il mondo sotto una più ampia e umana luce. Desidera condividere e offrire stimoli orientati a riscoprire il significato autentico del sapersi immergere in esperienze costruttive che consentano di tornare a se stessi e alla memoria, a riprendere un dialogo attivo e magico con quel mare reale che si apre davanti agli umani sguardi e con cui da secoli ci si continua a misurare. È un invito a respirare il creato con gratitudine e ad osservare l’impatto, reale o simbolico, che il mare dona ai suoi visitatori, a ciascuna nave animata dalle vite che la abitano e tout-court a ciascun osservatore nelle proprie sfide di vita. Il titolo del progetto è preso in prestito da una citazione tratta dal libro Oceano mare di Alessandro Baricco, che rivela al lettore dove sono gli occhi del mare. In questa cornice fiabesca, Rari Nantes è un’opera concepita come una composizione radiante, un puzzle scomposto, formato da immagini di ex-voto marinari che si stagliano sulla parete bianca di una vecchia stalla di un borgo incontaminato.
Per visitare la mostra si prega di registrarsi scrivendo a riservasantagostino@gmail.com
BIOGRAFIA ARTISTA
Paolo William Tamburella inizia la sua ricerca artistica a Roma, città che influenza le sue prime opere ispirate alla scultura antica romana. Dopo un periodo a Londra nel 2000 si sposta a New York dove vive fino al 2006 esponendo con la gallerista Annina Nosei. Nel 2006 durante un viaggio nel sud dell’India il suo lavoro subisce una trasformazione radicale.
L’attenzione verso il tessuto umano e culturale dei luoghi con i quali entra in contatto si unisce a una produzione incentrata sul concetto di rappresentazione e di monumentalità all’origine delle sue prime opere.
Tamburella incomincia a realizzare i suoi progetti spesso nel contesto del viaggio, installazioni site-specific, performance e sculture in cui sembra prevalere la necessità di decontestualizzare l’elemento di partenza con l’obiettivo di suggerire nuovi significati all’esistente. I protagonisti diventano i calzolai di Calcutta, i portuali delle Isole Comore, dei palloni da calcio bucati raccolti in un viaggio in camion attraverso l’India, delle ceste per trasportare polli nei mercati del Bangladesh, delle piante di vite estirpate da una vigna in Provenza o degli ex voto marinari scoperti per caso in un museo di Venezia. Una componente umana e oggettuale che dà vita ad opere cariche di una tensione espressiva e poetica che non è mera romanticizzazione, ma piuttosto trasferibilità del poetico all’esperienza e alla vita vissuta.
Paolo William Tamburella (Roma,1973) ha partecipato alla 53° Biennale di Venezia, alla 2° Biennale di Singapore e ha esposto in varie gallerie e musei, tra cui il Macro di Roma, il Kunstraum Kreuzberg/Bethanien di Berlino, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo sia di Torino che di Guarene e la galleria Annina Nosei di New York. È stato co-curatore del primo padiglione del Bangladesh alla 54° Biennale di Venezia. Attualmente vive e lavora tra Roma, Montalcino e la Maremma.
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STORIA
I GUGLIELMI DI VULCI
Nelle terre tra Montalto di Castro e Vulci tra le famiglie illustri ne sono passate diverse, tra Vico, Orsini e Farnese ma, se si parla di nobiltà, c’è un solo nome: i marchesi Guglielmi. Originari della piccola località di Legogne, nel territorio di Norcia, i Guglielmi giunsero a Civitavecchia nella seconda metà del Settecento (un Benedetto Guglielmi è attestato nella città portuale nel 1775) e in pochi decenni accumularono nella Maremma laziale un immenso patrimonio fondiario che si estendeva da Civitavecchia a Montalto superando anche i confini della Toscana, dove ebbero proprietà attorno a Talamone. Rimasero inoltre proprietari di terre nella loro regione di origine, l’Umbria, e altre ne acquistarono nei dintorni di Roma, tra cui il possedimento di Isola Sacra alla foce del Tevere. Dalle fonti d’archivio è possibile constatare come durante tutto il XIX secolo i Guglielmi incrementarono continuamente il loro patrimonio fondiario. Una inchiesta governativa del 1886 stimava in 2.641.012 lire la rendita dei loro terreni, una cifra che oggi corrisponderebbe a oltre 8 milioni di Euro. Secondo una relazione inedita di Joseph Whitaker, cittadino britannico residente in Sicilia e ospite dei Guglielmi nel 1905 per una battuta di caccia, la tenuta si estendeva su un’area di 18.000 ettari e all’epoca era considerata la seconda più vasta proprietà dell’intero territorio italiano,comprendendo un’area costiera, tra Corneto e Capalbio, e nella parte orientale (Monte Aùto, Monte della Passione e Monte Maggiore).
A quel primo Benedetto seguì Giulio (1772-1837), notabile di in certo peso che durante la dominazione napoleonica fu console per la Russia e le nazioni levantine e con il ritorno del governo pontificio rivestì varie volte la carica di gonfaloniere. Giulio ebbe cinque figli, tra cui quei Felice e Benedetto Guglielmi che nel 1839 subentrarono ai Candelori come enfiteuti di Camposcala. A propo- sito di Benedetto e della sua immensa ricchezza, il celebre Stendhal, in quegli anni console francese a Civitavecchia, scrisse «per la coltivazione del grano, s’è fatto un patrimonio di un milione di scudi (5.350.000 franchi)”. Benedetto ebbe tre figli: Francesca, morta in giovane età, Giulio e Giacinto che nel 1856, alla morte del padre, furono adottati dallo zio Felice, rimasto celibe. Furono loro, zio e nipoti, a fregiarsi per primi del titolo di marchesi. Felice Guglielmi (1813-1893) fu l’esponente della famiglia che più di ogni altro lasciò tracce di sé nella vita cittadina civitavecchiese. Fu varie volte gonfaloniere, fondò la locale Cassa di Risparmio e fece costruire lo scomparso palazzo di famiglia su progetto dell’architetto Giovanni Azzurri. Dopo il 1870 fu subito eletto nei primi consigli comunali e provinciali del neonato Regno d’Italia. Da questo momento in poi è possibile distinguere due rami principali facenti capo ai due fratelli. Dal ramo di Giulio (1845-1916) discese Benedetto (1875-1944), che nel 1937 donò al papa Pio XI la collezione di antichità che aveva ereditato dal padre e da questo Felice, familiarmente detto Felicino, appassionato cultore di storia di Roma e del Lazio scomparso nel 2001 all’età di ottantasette anni. Da Giacinto (1847-1911), che fu sindaco di Civitavecchia e di Montalto nonché senatore del Regno, discese Giorgio (1879-1945), che ebbe una carriera politica ancora più brillante: fu cinque volte deputato, membro della delegazione italiana alla conferenza di pace del 1919, senatore dal 1929 e infine vicepresidente del Senato. Da lui discese Giacinto, unitosi in matrimonio con Ylda dei conti Cini, e da questi, arrivando ormai ai nostri giorni, i cinque figli Isabella, Lyda, Giorgio, Vittorio e Anna.
Secondo la toponomastica, il nome ufficiale della piazza antistante il Castello è Piazza Felice Guglielmi, sebbene sia conosciuta come Pian di Rocca. Il toponimo ricorda quel Felice Guglielmi (1813- 1893) primo marchese di Vulci ricordato come illustre notabile civitavecchiese, personaggio interpretato da Aldo Morelli nel film Tiburzi di Paolo Benvenuti. La Via Giacinto Guglielmi, nota come zona Terravecchia, ricorda quel Giacinto Guglielmi (1847-1911) che alla fine dell’Ottocento fu varie volte sindaco di Civitavecchia, sindaco di Montalto e senatore del regno.
Nell’immaginario collettivo montaltese dei tempi che furono, in cui nascere nella parte “giusta” della società contava non poco, dei tempi del chinino di Stato, delle strade polverose e delle adunate in camicia nera, il marchese per antonomasia è ancora oggi Giorgio Guglielmi (1879-1945). Personaggio altero e distante dal popolo, il “Senatore”, temuto, rispettato, adulato, che più d’ogni altro esponente della famiglia incarnò il potere e le differenze di classe. Ad ogni suo arrivo in paese c’era sempre una folla che accorreva, chi per la supplica di un favore, chi di un lavoro, chi di un’elemosina. Tutte cose non di rado concesse. Una volta tutti i bimbi di Montalto furono schierati lungo l’Aurelia, in divisa da Balilla, per salutare un corteo di nere automobili dirette a Sant’Agostino per una delle leggendarie “cacciarelle” nella tenuta dei Guglielmi.
A far da contrappeso al Senatore, in senso sia politico che caratteriale, pensò il cugino Benedetto (1875-1944), che pare fosse di idee politiche più progressiste. C’era di mezzo qualche tornata elettorale e a Montalto per un certo periodo si crearono due vere e proprie fazioni, facenti capo ai due cugini, in accesa rivalità. La convivenza tra i due era naturalmente impossibile e dal castello di famiglia Benedetto si trasferì, dopo averlo acquistato, in quello che oggi è noto come Palazzo Funari. Questo Benedetto fece dono della sua prestigiosa collezione archeologica a papa Pio XI, ed in effetti questo ramo dei Guglielmi sembra essere stato più attratto dagli interessi culturali che non dalla politica, come testimoniano i numerosi scritti di storia, archeologia e arte lasciatici da Felice, figlio di Benedetto, usciti su varie testate nel corso degli anni e riuniti nel 1999 in una bella pubblicazione dal titolo Tra Roma e Maremma.
I GUGLIELMI E L’ARCHEOLOGIA
Le prime attività archeologiche dei Guglielmi risalgono al 1828, quando Giulio Guglielmi chiese ed ottenne una licenza per effettuare scavi nella tenuta di S. Agostino. Nel 1830 non contento promosse ulteriori ricerche nell’entroterra civitavecchiese e a Monteromano, rinvenendo anche in questo caso solo «alcune stoviglie etrusche di poco pregio». L’acquisto, nel 1831, della tenuta di Isola Sacra produsse finalmente i primi risultati incoraggianti con la scoperta della necropoli di Porto, da cui provengono tre sarcofagi donati nel 1935 al Museo Nazionale Romano e alcune iscrizioni funerarie oggi al Museo di Civitavecchia. Dallo stesso sito provenivano pure tre grandi blocchi di marmo donati a Pio IX da cui fu ricavato il basamento della colonna dell’Immacolata Concezione, eretta nel 1856 in Piazza Mignanelli. Nel 1839, divenuti enfiteuti di Camposcala, i Guglielmi poterono finalmente unirsi al grande “saccheggio” delle generosissime necropoli vulcenti. In breve tempo la collezione di famiglia si arricchì di ceramiche attiche ed etrusche, di raffinati oggetti metallici, di gioielli in grande quantità. Per tutto l’Ottocento la collezione rimase indivisa nel palazzo di Corso Centocelle, meta obbligata di ogni viaggiatore di passaggio a Civitavecchia. Furono i fratelli Giulio e Giacinto a dividere la raccolta: la parte di Giulio fu ereditata da Benedetto e da questi donata nel 1935 a papa Pio XI. Attento a mantenere buoni rapporti con lo Stato italiano, Benedetto donò inoltre al Museo di Tarquinia un altare in nenfro, poi trasferito a Villa Giulia, mentre al Museo Nazionale Romano alle Terme finirono i tre sarcofagi da Isola Sacra e un tesoretto di monete antiche. L’altra metà della collezione, quella del marchese Giacinto, fu trasportata a Roma nel palazzo di Via del Gesù dove rimase fino al 1987, anno in cui fu anch’essa acquistata dai Musei Vaticani e riunita alla metà già in loro possesso.
IL MARCHESATO DI VULCI
I primi marchesi di Vulci non furono i Guglielmi ma i fratelli Antonio ed Alessandro Candelori, che nel 1835 con l’elevazione a marchesato della tenuta di Camposcala e il conseguente diritto a fregiarsi del titolo di Marchesi di Vulci vennero così ricompensati da papa Gregorio XVI per avergli donato la grande e celeberrima anfora a figure nere con Achille e Aiace che giocano a dadi firmata dal vasaio Exekias, una delle più belle ceramiche attiche che si conoscano. L’anfora, rinvenuta nel 1834 e subito celebrata per la sua eccezionale qualità, è ancora esposta nei Musei Vaticani.
Il dono dei Candelori non era disinteressato. Anni prima infatti, nel 1830, i fratelli erano stati accusati di vendita illegale di materiale archeologico e questa ombra metteva a rischio il rinnovo della loro licenza di scavo. Il dono della grande anfora voleva essere dunque un gesto riparatore, ma il piano non andò a buon fine: alla scadenza (1838), la concessione non fu rinnovata e i Candelori dovettero accontentarsi del solo titolo nobiliare. Forse delusi da queste vicende, il 16 gennaio 1839 i neomarchesi Candelori cedettero l’enfiteusi di Camposcala a Benedetto e Felice Guglielmi, già enfiteuti di S. Agostino. Sarà solo nel 1862, con l’acquisto del pieno possesso della tenuta, che Felice Guglielmi e i suoi nipoti Giulio e Giacinto, figli di Benedetto morto nel 1856, potranno dirsi a pieno titolo marchesi di Vulci.